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Ciao a tutti e a tutte bentornati in un nuovo articolo del blog di Thesis 4u, la startup innovativa che mette in collegamento gli studenti e le studentesse con le aziende, grazie alle tesi di laurea in azienda.

La vita universitaria è un vero casino, diciamocelo. Tra esami, lezioni, caffè infiniti e la ricerca spasmodica di un briciolo di ispirazione, trovare il lampo di genio per un progetto che sia davvero significativo può sembrare un’impresa degna di Ercole. Ma a volte, l’ispirazione arriva dai luoghi più inaspettati, trasformando un compito accademico in un’avventura incredibile, capace di toccare temi delicati con un approccio totalmente nuovo.

Oggi vi portiamo all’interno di una storia pazzesca, quella di Irene, Anna ed Elisa, tre menti brillanti dell’Università IUAV di Venezia, che hanno trasformato una complessa sentenza di mafia in un… gioco da tavolo! Sì, avete capito bene. Non una tesi classica, non un saggio, ma un vero e proprio progetto sulla mafia sotto forma di esperienza ludica. E il risultato è qualcosa di cui dovete assolutamente sentir parlare.

Ma prima di tuffarci nelle meccaniche di gioco, nelle sfide superate e nei consigli che queste ragazze d’oro ci hanno regalato, facciamo un passo indietro. Parliamo di quella parola che spesso sentiamo, ma che non sempre capiamo fino in fondo: Mafia. Perché per apprezzare la genialità di questo progetto, dobbiamo prima capire contro cosa si è scontrato.

Quando si pensa alla mafia, la mente corre subito a film iconici, a personaggi carismatici e a una narrazione che, seppur avvincente, rischia di banalizzare o addirittura romanticizzare una realtà ben più cruda e distruttiva. La mafia, in tutte le sue forme (Cosa Nostra in Sicilia, ‘Ndrangheta in Calabria, Camorra in Campania, Sacra Corona Unita in Puglia, solo per citare le principali in Italia), non è un fenomeno pittoresco o un’esclusiva delle pellicole americane. È un sistema criminale complesso, radicato nel tessuto sociale, economico e persino politico di alcune regioni, che da decenni affligge l’Italia e si è espanso a livello globale.

Facciamo un breve viaggio nel tempo per capirla meglio:

Immaginatevi la Sicilia di metà Ottocento. Un’isola ancora sotto il controllo dei Borboni, con un potere centrale debole e una popolazione contadina spesso abbandonata a sé stessa. In questo contesto di vuoto di potere e insicurezza, iniziarono a farsi avanti figure locali che, sfruttando il bisogno di protezione delle persone e la debolezza dello stato, offrivano “servizi” di “protezione” (spesso coatta) e di risoluzione delle controversie. Nasceva così, lentamente, quella che sarebbe diventata Cosa Nostra. Un’organizzazione basata su legami di sangue, di onore (o meglio, di una sua distorta interpretazione) e, soprattutto, sulla violenza e la minaccia come strumenti per imporre la propria volontà.

Le caratteristiche chiave:

  • Il Controllo del Territorio: La mafia opera come uno “stato nello stato”. Controlla un’area geografica, imponendo le sue regole, la sua giustizia e le sue “tasse” (le estorsioni, di cui parleremo tra poco).
  • L’Omertà: È la legge del silenzio. Chi sa non parla, per paura delle ritorsioni o per un malinteso senso di lealtà. Rompere l’omertà significa mettere in pericolo sé stessi e la propria famiglia. È il pilastro che rende la mafia così difficile da combattere dall’interno.
  • Le Attività Illegali: Dalle estorsioni al traffico di droga, dal riciclaggio di denaro al controllo degli appalti pubblici, la mafia è una vera e propria impresa criminale che genera profitti enormi, spesso reinvestiti in attività legali per “ripulire” il denaro.
  • La Violenza: È lo strumento ultimo e più brutale per mantenere il potere, punire i “traditori” e intimidire chiunque si opponga.

Un esempio pratico: Il “pizzo”

Questo è forse uno degli aspetti più concreti e devastanti dell’azione mafiosa, ed è un concetto chiave per capire la realtà in cui si muovono gli imprenditori, proprio come i giocatori nel nostro Progetto sulla mafia.

Immaginatevi di aver aperto un piccolo negozio, un bar, una pizzeria. Avete investito i vostri risparmi, il vostro tempo, le vostre energie. Siete felici, fiduciosi. Un giorno, si presenta qualcuno, un “amico” (o un “cugino,” “nipote” ecc.), e vi dice che per la vostra “tranquillità,” per evitare “problemi” (come incendi dolosi, furti, atti vandalici), sarebbe “opportuno” versare una certa somma di denaro periodicamente. Questa è l’estorsione, più comunemente conosciuta come “pizzo.”

  • Come funziona: Non è una rapina a mano armata. È più subdola. Si basa sulla minaccia implicita o esplicita. Se paghi, lavori in pace (una pace fittizia, fatta di sottomissione). Se non paghi, i “problemi” iniziano. E questi problemi possono essere molto concreti: la merce distrutta, il locale danneggiato, fino a minacce personali o alla propria famiglia.
  • L’Impatto: Per l’imprenditore, pagare il pizzo significa:
    • Perdita economica: Il denaro viene sottratto all’azienda, riducendo margini di guadagno e possibilità di crescita.
    • Perdita di libertà: Non si è più padroni della propria attività. Ogni decisione è influenzata dalla paura.
    • Concorrenza sleale: Chi paga il pizzo può essere “protetto” e non subire ritorsioni, mentre chi si rifiuta o denuncia, si trova in una posizione di svantaggio insostenibile.
    • Rinuncia alla legalità: In un certo senso, si entra a far parte di un sistema illegale, anche se come vittime, perché si contribuisce a sostentare l’organizzazione criminale.

Capire il “pizzo” significa capire la logica della mafia: non solo violenza bruta, ma controllo capillare della vita economica e sociale. E proprio su queste dinamiche si è concentrato il Progetto sulla mafia delle nostre studentesse. È fondamentale che i giovani comprendano queste sfumature, perché la mafia si combatte anche con la conoscenza e la consapevolezza, evitando di banalizzarla o, peggio, ignorarla.

Un progetto sulla mafia

Torniamo alle nostre protagoniste: Irene da Palermo, Anna da Genova ed Elisa da Venezia. Tutte e tre studentesse del corso di Design della Comunicazione allo IUAV di Venezia. Cosa le ha spinte a scegliere proprio quella facoltà? Un mix di passione per l’arte e la grafica, il desiderio di intraprendere un percorso creativo ma con sbocchi lavorativi più concreti, e per Elisa, anche la comodità di casa. Ma quello che le unisce davvero è la voglia di usare il design non solo per creare qualcosa di bello, ma qualcosa che comunichi, che spieghi, che coinvolga.

Il loro percorso nel corso di Design della Comunicazione le ha portate di fronte a una sfida non da poco: partire da una sentenza di mafia e raccontarla graficamente, rendendola non solo interessante, ma soprattutto comprensibile. Immaginate la complessità di una sentenza legale, con il suo linguaggio tecnico, e la delicatezza del tema trattato. Come si rende tutto questo accessibile a un pubblico più ampio, magari giovane?

Inizialmente, l’idea era più orientata all’editoria, magari un libro o una pubblicazione illustrata. Ma poi, grazie anche a un consiglio illuminato del loro professore, hanno avuto l’intuizione che ha cambiato tutto: perché non realizzare un gioco da tavolo?

Questa scelta è stata rivoluzionaria. Un gioco, per sua natura, è interattivo, coinvolgente e permette di apprendere attraverso l’esperienza. Rompe le barriere della lettura tradizionale, invitando i partecipanti a vivere le dinamiche e le scelte che altrimenti resterebbero astratte su una pagina. Trasformare un progetto sulla mafia in un’esperienza ludica ha reso un tema pesantissimo, non leggero, ma decisamente più accessibile e immersivo. È stato un vero e proprio esperimento, come lo hanno definito loro, duro ma incredibilmente “figo”.

Ed eccoci al cuore di questo progetto sulla mafia: il gioco da tavolo. Non è un gioco banale, tutt’altro. È un “gestionale”, ovvero un tipo di gioco in cui i partecipanti devono gestire risorse, prendere decisioni strategiche e affrontare le conseguenze delle proprie scelte. E il bello è che i giocatori si calano nei panni di… un imprenditore!

Come funziona il gioco in pratica?

Ogni giocatore è un imprenditore che deve costruire e ampliare la propria rete economica. Come? Acquistando aziende, accaparrandosi appalti pubblici e facendo altre mosse strategiche per far crescere il proprio capitale. La partita è un susseguirsi di scelte e opportunità, ma con un twist che rende il gioco unico e potente: la costante tentazione di prendere la strada illegale.

  • Il Dilemma Etico: Il cuore del gioco sta proprio qui. Durante la partita, i giocatori si trovano di fronte a bivi cruciali:
    • Rimanere nella Legalità: Una strada più lenta, magari più difficile, ma eticamente ineccepibile.
    • Prendere Rischi (uscire dalla legalità): Una via apparentemente più facile, che promette guadagni rapidi o vantaggi immediati, ma che comporta l’accumulo di “rischi”.

Il giocatore deve cercare di guadagnare il più possibile e mantenere il capitale più alto, ma senza accumulare troppi rischi. Perché? Semplice: alla fine della partita, i rischi accumulati presentano il conto. Proprio come nella vita reale, le scelte illegali hanno conseguenze, e spesso queste conseguenze arrivano quando meno te lo aspetti e sono più pesanti di quanto avresti immaginato.

Le ispirazioni e la ricerca dietro il gioco:

Questo non è stato un gioco creato a caso. Le ragazze hanno rivelato di aver provato una miriade di giochi da tavolo, proprio per studiarne le dinamiche, le meccaniche e le regole. Tra le loro ispirazioni principali, ci sono nomi che tutti conosciamo:

  • Monopoly: Un classico dei giochi gestionali, da cui hanno preso il concetto di acquisto di proprietà e la costruzione di un impero economico.
  • Patchwork: Un gioco meno noto al grande pubblico ma molto apprezzato dagli esperti, da cui hanno estratto meccaniche legate alla gestione delle tessere e all’ottimizzazione dello spazio, adattandole alla loro visione.

Questo processo di “giocare per imparare” è stato fondamentale per creare un sistema che fosse non solo divertente, ma anche pedagogicamente efficace. Hanno preso le dinamiche migliori, le hanno mescolate e poi le hanno plasmate sulla sentenza e sul messaggio che volevano comunicare con il loro Progetto sulla mafia.

Il messaggio profondo: sensibilizzare senza ridicolizzare

Il vero obiettivo di questo progetto sulla mafia non è far vincere o perdere in un semplice gioco, ma è molto più ambizioso e delicato: sensibilizzare alle dinamiche della vita di chi subisce gli atteggiamenti mafiosi.

Come hanno sottolineato le ragazze, era fondamentale non ridicolizzare un tema così grave. Il gioco non punta a banalizzare la mafia, né a suggerire che la criminalità sia una “scorciatoia” divertente. Al contrario, vuole mettere il giocatore di fronte alle stesse scelte difficili che affrontano gli imprenditori nella realtà. Vuole fargli capire, attraverso l’esperienza diretta, le pressioni, le tentazioni e, soprattutto, le conseguenze delle azioni legate al mondo mafioso.

Mettersi nei panni di un imprenditore che deve scegliere tra la legalità e la tentazione di un guadagno facile ma “sporco” (il famoso “pizzo” o gli appalti pilotati) fa riflettere. Fa capire quanto sia sottile il confine, quanto sia forte la pressione e quanto sia importante saper riconoscere certi atteggiamenti e le loro ricadute. È un modo potente e innovativo per fare educazione civica e sensibilizzazione, soprattutto per un pubblico giovane che magari non legge libri o saggi sull’argomento. È imparare facendo, e in questo caso, giocando.

Un progetto sulla mafia

La realizzazione di un progetto del genere, soprattutto in ambito universitario, non è mai una passeggiata. E per Irene, Anna ed Elisa, è stato un vero tour de force. Ascoltando il loro racconto, si percepisce tutta la passione, ma anche tutta la fatica che hanno investito.

Il cronometro alla mano: tre mesi sembrano tanti, ma…

La prima, enorme difficoltà? Il tempo. Tre mesi. Sì, avete letto bene. Solo tre mesi per ideare, progettare, testare, e materialmente realizzare un gioco da tavolo complesso. Le ragazze hanno rivelato che progetti simili, in contesti diversi, richiedono solitamente almeno un anno e mezzo. Immaginate la pressione! Questo ha comportato un ritmo di lavoro serratissimo e la necessità di essere estremamente efficienti.

Una vera divisione dei compiti (e tanta autonomia)

Inizialmente, il lavoro è stato prettamente di gruppo. La fase di ricerca, di analisi delle meccaniche di gioco esistenti, di “brainstorming” per capire come trasporre la sentenza nel gioco, è stata fatta a sei mani. Dovevano capire le dinamiche, testare, modificare. Era un laboratorio di idee continuo.

Man mano che il progetto prendeva forma, le competenze si sono specializzate per ottimizzare i tempi:

  • Elisa si è concentrata maggiormente sulla grafica degli elementi del gioco, dando vita all’estetica di carte, pedine e tabellone.
  • Irene ha curato la parte editoriale, in particolare il “libro-gioco” di 44 pagine, che non è solo un regolamento, ma un vero e proprio approfondimento sulla correlazione tra il gioco e la sentenza di mafia, un’aggiunta fondamentale per il messaggio del progetto sulla mafia.
  • Anna si è occupata della parte materiale e produttiva, dalla ricerca dei materiali alla coordinazione per la stampa, una fase incredibilmente complessa e costosa.

E qui viene un altro punto cruciale: la totale autonomia. Sebbene il professore abbia dato qualche consiglio sporadico, la maggior parte delle soluzioni, dalle più semplici alle più complesse (come trovare il modo di realizzare la scatola senza farla stampare su misura, per contenere i costi), è venuta dalla loro ingegnosità e spirito di problem-solving. Una vera palestra per il mondo del lavoro!

La battaglia con la grafica e i materiali

Uno degli aspetti più impegnativi è stata la parte grafica. A causa delle tempistiche serrate, lo stile grafico ha subito modifiche in corso d’opera, rendendo il lavoro un’ardua corsa contro il tempo. Ma non è stato solo il disegno. La parte “fisica” del gioco, la sua materializzazione, è stata una sfida titanica. Stampare i mazzi di carte, trovare il giusto cartone per il tabellone, assemblare la scatola… ogni passaggio richiedeva ricerca, inventiva e, ovviamente, budget.

Parlando di budget, le ragazze sono state chiare: i costi sono stati “significativi” e tutti a loro carico. Un’altra dimostrazione dell’impegno e della dedizione che hanno messo in questo progetto sulla mafia.

Cosa si poteva migliorare (con il senno di poi)?

Con l’onestà che caratterizza i veri designer, hanno ammesso che, se avessero avuto più tempo e risorse, alcune cose avrebbero potuto essere perfezionate: le pedine, la produzione in serie della scatola (che ora è frutto di ingegno “artigianale”), e una maggiore cura nei dettagli grafici. Ma, come giustamente notato, il professore ha capito che, date le risorse e i tempi, era il massimo che si potesse fare. Ed è un risultato straordinario.

Il fatto che abbiano concentrato la maggior parte dei tre mesi sulla creazione di un gioco con meccaniche interessanti e funzionanti, piuttosto che sull’estetica pura, è una prova della loro professionalità e della loro comprensione dell’obiettivo primario: il messaggio e l’esperienza di gioco. La grafica, seppur curata, è stata la parte più sacrificata alle stringenti tempistiche.

Il progetto sulla mafia di Irene, Anna ed Elisa è molto più di un semplice compito universitario. È un esempio lampante di come il design della comunicazione possa essere uno strumento potente per affrontare temi sociali complessi, rendendoli accessibili, coinvolgenti e capaci di generare consapevolezza. Hanno dimostrato che si può parlare di mafia senza cadere nella retorica o nella banalità, ma con un approccio innovativo che unisce il gioco all’educazione.

In un’epoca in cui la mafia continua a evolvere e a nascondersi dietro facciate sempre più insospettabili, progetti come questo sono fondamentali. Essi offrono ai giovani (e non solo!) uno strumento per capire le dinamiche subdole che stanno dietro a questo fenomeno, per riconoscere gli “atteggiamenti mafiosi” anche nelle situazioni quotidiane e per riflettere sulle conseguenze delle scelte, siano esse legali o illegali. È un invito a non voltare le spalle, a non banalizzare, ma a informarsi e a prendere posizione, anche attraverso il gioco.

Alle future matricole e agli studenti che si avvicineranno a corsi di laurea come Design della Comunicazione (o qualsiasi magistrale!), le ragazze lasciano un consiglio prezioso: la magistrale è tosta. Richiede tempo, energia, dedizione. Ma anche se bisogna essere pronti, non è necessario avere tutte le risposte fin dall’inizio. Il percorso è fatto anche di cambiamenti di idea, di scoperte, di sfide che ti spingono oltre i tuoi limiti. E come dimostra questo pazzesco progetto sulla mafia, a volte, proprio da quelle sfide nascono le idee più brillanti e i risultati più soddisfacenti.