Moltissimi giovani della GenZ fanno fatica a trovare lavoro, o un lavoro stabile che li faccia sentire soddisfatti: in questo articolo scopriamo di più su lavoro e GenZ!
Benvenute e benvenuti a un nuovo articolo del blog di Thesis 4u, la startup innovativa che mette in collegamento gli studenti e le studentesse con le aziende, grazie alle tesi di laurea in azienda.
In questo nuovo articolo vogliamo approfondire il legame tra mondo del lavoro e GenZ (o Centennials, o tanti altri nomi).
I nuovi giovani infatti, desistono sempre più all’idea di un lavoro da 8 ore al giorno: pensiamo al TikTok diventato virale di Brielle Asero, dove in lacrime confida la sua paura di dover vivere una vita completamente dedita al lavoro.
Se poi consideriamo che gli stessi datori di lavoro, spesso esitano ad assumere giovani appartenenti alla GenZ, scopriamo che esiste della repulsione reciproca tra le parti. Date un occhio a questo articolo di Higher Ed Dive che spiega come moltissimi datori di lavoro sono restii ad assumere giovani della GenZ.
Ma prima di esplorare meglio le motivazioni di questo rapporto difficile tra lavoro e GenZ, vediamo che cos’è la GenZ.
Lavoro e GenZ: che cos’è la GenZ?
Le Generazione Z è la penultima generazione contata dai sociologi e comprende tutti i nati tra il 1996 e il 2012. Se almeno dal 2007 in poi sono ancora ragazzini o poco meno, tutti gli altri sono già maggiorenni e molti di loro sono già da diverso tempo nel mondo del lavoro.
I sociologi hanno delineato alcune delle caratteristiche principali di questa generazione: Ipsos ci spiega come questa nuova generazione mostri un approccio più globale, aperto e inclusivo. Inoltre sono più favorevoli ai diritti civili, come i matrimoni omosessuali e le adozioni omogenitoriali.
La GenZ (o almeno gran parte di essa) inoltre, è la prima ad aver vissuto completamente immersa nei nuovi media tecnologici: si parla spesso di nativi digitali, quindi di persone che nascono acquisendo sin da piccole le capacità di manipolazione delle tecnologie multischermo, considerandole naturali (questo ci differenzia dagli immigrati digitali e dai tardivi digitali).
Ma anche qualche punto negativo: sempre l’Ipsos ci dice che i giovani della GenZ, seppur temono una crisi ambientale, non sono particolarmente attenti al risparmio o allo spreco di risorse (energia, acqua…), ad un’alimentazione più sostenibile (meno carne, più alimenti vegetali…).
In Italia sono 9 milioni le persone appartenenti alla GenZ e dunque entro il 2030 rappresenteranno un terzo di tutta la forza lavoro. Ma appunto il rapporto tra lavoro e GenZ si fa sempre più difficile. Vediamone alcune problematiche.
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Lavoro e GenZ: i NEET
I NEET, acronimo di Not in Education, Employment or Training, sono persone che, appunto, non sono impegnate né nello studio, né nel lavoro (o nella sua ricerca). Nel 2021 il 13,1% dei giovani europei tra i 15 e i 29 anni erano NEET, e l’Italia supera la media europea di ben 10 punti, con il 23,1% della fascia 15-29 anni attualmente nullafacente.
Ovviamente anche nell’Italia stessa vi sono differenze a seconda del luogo: per esempio a Caltanissetta, in Sicilia, si stima una percentuale di NEET di oltre il 40% (sempre tra i 15 e i 29 anni).
Questo è un dato molto preoccupante, che dimostra come lavoro e GenZ non vadano propriamente d’accordo. Anche se c’è da dire che nel conteggio dei NEET non si considerano lavoratori in nero; e in Italia i lavoratori in nero sono tanti, ben 3,2 milioni secondo le ultime stime, quindi i NEET tra i giovani potrebbero essere molti di meno.
Sul piano europeo ed italiano sono varie le iniziative per coinvolgere di più i giovani nel mondo dello studio e del lavoro: un esempio è il pacchetto legislativo “A Bridge to Jobs“, un impegno, come riporta il sito ufficiale della Commissione Europea, volto a garantire ai giovani inferiori di 30 anni offerte di formazione, lavoro, apprendistato o tirocinio.
Bisogna anche stimolare i giovani attraverso progetti che sappiano valorizzarli, specie nel percorso scolastico: nei paesi con meno dispersione scolastica rispetto all’Italia, il fenomeno dei NEET è più contenuto.
Vediamo ora altri fenomeni che mostrano come il rapporto tra lavoro e GenZ non sia dei migliori.
Lavoro e GenZ: il Quiet Quitting
Un altro fenomeno negativo che caratterizza il rapporto tra lavoro e GenZ è quello del quiet quitting. Letteralmente un abbandono silenzioso, il quiet quitting è quella tendenza, molto diffusa tra i giovani, specie dopo la pandemia, di prestare sempre meno attenzione e dedizione al lavoro: per esempio, non accettare straordinari, fare il minimo indispensabile per non perdere il posto di lavoro.
Se secondo alcuni le cause sono da ricercare nelle problematiche da stress, burnout o simili, legate al lavoro, secondo altri la colpa potrebbe essere proprio dei datori di lavoro che non sanno creare rapporti sani con gli impiegati.
Come riporta questo articolo di Wall Street Italia, l’Italia si piazza per ultima in Europa per engagement sul lavoro: vuol dire che pochissimi lavoratori si sentono coinvolti nella loro attività lavorativa.
I lavoratori, specie i più giovani, e in particolar modo dopo la pandemia, prediligono il loro benessere psicofisico e la loro crescita personale piuttosto che perseguire una carriera a tutti i costi.
Anche i datori di lavoro devono dunque adattarsi se vogliono superare questo problema, soddisfando le richieste dei giovani, specie in merito a remunerazione, formazione e e crescita personale.
Vediamo come è stato dunque ribaltato il paradigma del lavoro ad ogni costo, dell’inseguire la carriera e il guadagno, dello sforzo, la cosidetta hustle culture.
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Lavoro e GenZ: i Job Hoppers
Il prossimo fenomeno negativo che riguarda lavoro e GenZ è quello dei job hoppers. Quando parliamo di job hoppers intendiamo quelle persone che cambiano molto spesso lavoro, anche una volta l’anno, appunto “saltando” da un’occupazione all’altra (dall’inglese hop, saltellare).
Questo fenomeno è molto tipico delle generazioni più giovani, come la GenZ, ma anche quella precedente, ossia quella dei Millenials.
Questo aspetto differenzia molto noi giovani dalle generazioni passate, nelle quali, tendenzialmente, quando si trovava un lavoro, quello era per il resto della vita, spesso anche tramandato di generazione in generazione.
Questo aspetto non è per forza di cose negativo: una persona può cambiare spesso lavoro per cercare nuove sfide, per annoiarsi di meno ed essere più stimolato nel lavoro.
Ma non è sempre così: infatti i job hoppers potrebbero cambiare spesso lavoro per cercare di trovare una stabilità economica che meglio li soddisfi.
Vediamo allora che ci sono tre tipi di job hoppers, come ci spiega Factorial in questo articolo:
I job hoppers necessari, ossia colo che praticano professioni molto legate alla temporaneità, e lavorano dunque con contratti a chiamata o simili. Il loro cambio di occupazione fa semplicemente parte del loro lavoro.
Abbiamo poi i job hoppers che inseguono un ‘opportunità lavorativa migliore: magari una retribuzione migliore, un lavoro più stimolante, un ambiente di lavoro che gradisce maggiormente, o perché no, un’azienda più in linea con i suoi valori.
Per finire con una nota amara, abbiamo i job hoppers problematici, che cambiano spesso lavoro per difficoltà di adattamento al lavoro, ai quali magari non piace per nulla l’occupazione, ma sono praticamente costretti a continuare a lavorare per motivi economici.
Ma quanti sono i job hoppers? Randstad ci dice che in Italia erano circa 900 mila nel 2021, ma con una tendenza a decrescere rispetto a 10 anni prima, quando erano oltre un milione. E la tendenza è chiaramente più legata ai giovani: man mano che si osservano persone di età maggiore, la tendenza a cambiare lavoro molto spesso diminuisce.
Inoltre, anche i vari settori mostrano una tendenza più o meno frequente del fenomeno: negli ultimi anni è stato sopratutto il digitale a riscontrare alti casi di job hopping, anche per via dell’esplosione di tale settore.
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Lavoro e GenZ: quali sono le aspirazioni dei nuovi giovani?
Ma come mai tra lavoro e GenZ c’è un rapporto così complicato? Quali sono le ragioni che stanno dietro ai fenomeni dei NEET, del quiet quitting, e dei job hoppers? Chi può intervenire per attenuare questi problemi?
In parte lo abbiamo già visto: dietro questi fenomeni spesso vi è una formazione scolastica o lavorativa carente, delle remunerazioni basse, aziende poco in linea con i valori dei giovani. In altri casi ancora abbiamo visto che le ragioni dietro non sono necessariamente negative, come nel fenomeno del job hopping.
Ma a tutto questo si aggiunge, probabilmente, una motivazione più diffusa, più radicata nelle nuove generazioni: la necessità di prendersi cura anche della nostra persona, sia a livello di salute, fisica e mentale, sia a livello familiare, sia a livello culturale.
Per secoli ha dominato la cultura del lavoro e dello sforzo ad ogni costo: pensiamo alla hustle culture, la cultura del sogno americano e del self-made man. Tutte culture che ci indicano che per realizzarsi bisogna necessariamente sforzarsi, faticare, e soprattutto, fare soldi.
Se proprio vogliamo, questa cultura ha radici anche più profonde, specie nel mondo occidentale, partendo dalle filosofie religiose: pensiamo ai puritani che condannavano il riposo e l’ozio, o al cattolicesimo medievale che prometteva ai fedeli una vita migliore dopo la morte, dopo una vita di stenti passata a lavorare.
Abbiamo già citato in apertura il TikTok di Brielle Asero che denuncia come la vita da lavoratore o lavoratrice full time sia troppo opprimente, ma citiamo anche Umberto Galimberti, noto filosofo e psicoanalista, che sostiene che “i giovani non hanno più come unico scopo il profitto”, ma si prendo anche cura della “qualità della loro esistenza”.
Per risolvere i problemi che affliggono lavoro e GenZ dunque, da una parte bisogna, molto probabilmente, investire di più sull’istruzione, sulla formazione, così da permettere a ciascuno di esprimere i suoi talenti, le sue capacità come meglio crede.
Dati Istat ci mostrano infatti come, anche oggi, chi ha studiato più a lungo è più soddisfatto della propria occupazione.
Ma dall’altra parte anche il mondo del lavoro probabilmente deve addattarsi alle nuove esigenze dei giovani. Remunerando di più, lasciando più tempo ai dipendenti, per permettere loro di sviluppare appieno anche la loro personalità.
Ma le risposte a problemi così complessi, non possiamo di certo darvele noi di Thesis 4u. Speriamo però che da questo articolo su lavoro e GenZ possiate trovare qualche spunto, per poter cercare di avere un rapporto quanto più sano col mondo del lavoro.
Abbiamo visto insieme quali sono i fenomeni che rendono complicato il rapporto tra lavoro e GenZ. Li conoscevi? Conosci iniziative che possano aiutare i giovani a uscire da queste condizioni? Faccelo sapere sui nostri canali Social!
About the author: Alessandro Faraoni, Thesis 4u intern